CHIARE, FRESCHE E DOLCI ACQUE

 

Non si riferiva certamente al Seveso il Petrarca quando titolava così la sua canzone. Ma sicuramente erano così le acque che passavano per Cusano Milanino quando i nostri antenati decisero di costruire qui il nostro paese. Il Seveso è stato da sempre una grande risorsa e un portatore di vita per tutti coloro che, nei secoli, hanno vissuto vicino alle sue sponde. Almeno fino ai primi anni del secolo passato, quando l’industrializzazione galoppante portò fabbriche, lavoro, progresso, case e palazzi, ricchezza in tutti i comuni lungo il corso di questo torrente. E il Seveso cessò di essere un corso d’acqua degno di questo nome, per diventare invece una fogna a cielo aperto. Lì infatti si conferivano gli scarti liquidi delle lavorazioni di tutte le aziende, tessili e non, e anche di moltissime abitazioni.

Chi passava sui ponti e sulle rive poteva vedere l’acqua cambiare colorazione più volte al giorno. Ed erano colori forti, vividi: blu, rosso, verde, nero, marrone. Una gamma di tonalità vastissima, decisa in totale libertà dai coloranti usati e scaricati in Seveso. Anche quando furono realizzate le reti di fognatura, continuarono a sversare nel fiume i grandi collettori di fogna durante le forti piogge, e anche i circa 1400 scarichi abusivi. Se consideriamo poi l’enorme cementificazione di tutti i nostri paesi, ci rendiamo conto di come i territori non siano più in grado di assorbire le piogge. Inoltre i cambiamenti climatici in corso fanno si che gli eventi atmosferici siano sempre più violenti, vere e proprie “bombe d’acqua”. Da qui l’entrata nel Seveso di enormi volumi di acqua limacciosa e le disastrose esondazioni in molte zone, soprattutto in Milano nord, dove il nostro fiume scorre sotterraneo.

Purtroppo l’unica soluzione individuata da Regione Lombardia e Comune di Milano, per evitare gli allagamenti causati dal Seveso, è la costruzione di enormi vasche (dette di laminazione) che raccolgano le acque fangose mischiate coi liquami fognari che, per la loro grande quantità, non possono essere indirizzate ai depuratori. E così vengono messi gli uni contro gli altri i cittadini che non ne possono più di vedersi allagare case e negozi e i cittadini che guardano costruire sotto le loro finestre vere e proprie cloache velenose (comprendenti anche virus identificati).

 Ma esistono soluzioni alternative? La risposta è un SI forte e chiaro. Esistono soluzioni di più veloce realizzazione, meno costose delle vasche di laminazione, più naturali ed ecologiche, più efficienti e che rispondono anche alle fasi di siccità che si alternano alle piogge torrenziali.

Da diversi mesi si è costituito il CCTS: Coordinamento Comitati Torrente Seveso (per Cusano Milanino sono presenti il locale Circolo di Legambiente e gli Amici del Milanino), che altro non è se non l’organizzazione che riunisce tutte le associazioni, circoli, comitati, gruppi di cittadini e di esperti che operano affinchè il Seveso torni a essere il torrente dalle chiare, fresche e dolci acque. Addirittura l’obiettivo finale comune sarà la costruzione del River Park, il parco fluviale del Seveso. Quanto tempo ci vorrà per arrivarci? Solo quello che servirà perché istituzioni, politici e cittadini capiscano che, per il bene di tutti, i fiumi devono tornare a essere fiumi, coi loro spazi e col rispetto dovuto a una risorsa naturale indispensabile agli esseri umani, al mondo animale e al mondo vegetale.

E allora si deve iniziare a censire e chiudere le molte centinaia di scarichi abusivi; costruire ovunque vasche sotterranee di raccolta delle acque piovane che, pulite, potranno tornare nelle falde oppure essere usate per scopi non potabili (irrigazione, pulizia strade, antincendio, lavaggio auto, usi domestici non alimentari, ecc…); realizzare, in ogni paese o località, impianti di fitodepurazione delle acque diluite del colmo di fogna, con rinaturalizzazione di aree periferiche semi abbandonate, con dotazione di parchi composti da percorsi per pedoni e biciclette, prati, canneti, laghetti, come quello in progetto nel quartiere Calderara di Paderno Dugnano; raddoppiare il Canale Scolmatore di Nord Ovest (CSNO) che porta le piene verso i corsi d’acqua occidentali, fino al Ticino (era già previsto ma il progetto di raddoppio è stato abbandonato a favore delle costosissime, inquinate, golose di molti milioni di euro, vasche di laminazione); dare vita alle aree golenali (di espansione naturale dei fiumi) a Cermenate e nel Canturino; deimpermeabilizzare e rinaturalizzare le sponde cementificate del Seveso; far tornare a essere filtranti tutte le aree delle fabbriche dismesse, o almeno quanto più di esse sia possibile; applicare ovunque il principio dell’Invarianza idraulica, che consiste nel fare filtrare o raccogliere su un territorio tutta la pioggia che cade su di esso (la regione Lombardia lo prevede solamente per le nuove edificazioni. Serve incentivare fiscalmente che lo si faccia anche sulle aree già edificate).

Qualcuno poco informato potrebbe dire che questo è il libro dei sogni e che ci vorranno decenni per concretizzare tutte queste azioni. Invece è giusto che si sappia che sono obiettivi di realizzazione più veloce di quanto si creda. Sicuramente alcuni di questi sarebbero raggiunti prima del termine della costruzione della vasca di laminazione di Bresso, che poi è l’unica in fase di fabbricazione. Per cominciare hanno abbattuto quattro ettari di bosco nel Parco Nord (!). successivamente scaveranno una enorme fossa, profonda dieci metri, che dovranno impermeabilizzare per stoccare le maleodoranti acque. Non sarà pronta prima di due anni. Sarà pericolosa sia piena che vuota, costerà tanti milioni, ruberà spazio al verde, produrrà miasmi e aerosol nocivi, farà vivere male i cittadini che abitano sulle sue sponde, comprese scuole e asili.

Ecco, la scelta è tra questo scempio del territorio e le concrete proposte alternative, in parte pronte per essere realizzate da subito.

Il CCTS ha preparato un documento molto curato e completo di dati e statistiche per informare sindaci e istituzioni, chiede di incontrare Regione e Città Metropolitana, prepara convegni e conferenze di tecnici ed esperti, darà vita a biciclettate e flash mob, produrrà articoli e studi per tutti i media, distribuirà volantini e comunicati. Farà la sua parte.

Dopo tanti decenni di abbandono, il Seveso e il suo territorio potranno finalmente avere l’attenzione e la cura necessarie affinché natura e persone tornino a vivere in un rapporto di buona convivenza e di proficuo benessere.

Angelo Agosti

E se ci riuscisse un virus? Uscire dall’emergenza immaginando il futuro

di Lidia Arduino

“Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema”

Sono proprio una irriducibile ottimista se riesco ad immaginare che questa pandemia mondiale possa portare alcunché di buono!

Ma spesso è proprio dalle esperienze dolorose che nasce qualcosa che segna profondamente e modifica il proprio modo di pensare e di vivere. Lo è stato nella mia esperienza personale e potrebbe esserlo per questo disastro collettivo o almeno per il futuro di questa città.

Stiamo uscendo dall’emergenza e molti osservano che può essere l’occasione buona per rivedere quella “normalità” alla quale vorremmo ritornare, ma dentro la quale c’erano probabilmente anche le concause di questa pandemia. Penso all’inquinamento e alle polveri sottili che rendono più vulnerabile l’organismo umano e forse costituiscono dei vettori per la diffusione del virus. E il discorso si potrebbe estendere ad altri ambiti: economico, sociale, sanitario , politico e così via.

Ebbene il rallentamento della vita sociale e lavorativa e quello stare in casa come prescrizione medica alla diffusione dell’epidemia mi hanno permesso di compiere riflessioni e approfondimenti sulla vita nelle grandi concentrazioni urbane, le preferite per la diffusione del virus.

Si sono in questo periodo sviluppati molti dibattiti sui tempi e sugli spazi della vita nelle grandi città, come quello condotto da Stefano Boeri, che ho avuto il piacere di seguire in un quotidiano dialogo aperto sui social, il quale ha invitato a pensare ad una città diversa, più verde, una città dei quartieri, divisa in piccoli “borghi urbani” che permettono agli abitanti di raggiungere tutti i servizi essenziali in 15 minuti a piedi. Questo modello è ben diverso da quello delle periferie urbane americane a bassa densità, fatta di infinite villette che non fanno che consumare suolo e rendere indispensabile l’uso della macchina per raggiungere i centri commerciali. Nel piccolo borgo possono essere rivalutati anche i negozi di vicinato e diventano vitali gli spazi aperti, come le piazze e i giardini che, anche in momenti di distanziamento sociale, consentono di vivere all’aperto.

Ho pensato che, in fondo, la nostra città di Cusano Milanino  possiede già questi requisiti: si potrebbe infatti definire un piccolo borgo di circa 3 chilometri quadrati, percorribili a piedi, con un centro commerciale alberato fatto di negozi di prossimità, distribuiti su un unico asse e con diverse ramificazioni (Viale Matteotti) che incrocia ortogonalmente un altro importante asse  commerciale che ha ora un aspetto disordinato e in cerca di identità (Via Sormani).  I servizi essenziali: civici, religiosi, sanitari sono a portata di mano, così anche i luoghi della cultura, dalla Torre dell’Acquedotto, alla Biblioteca, fino al Palazzo Omodei , una volta che sarà restituito completamente ai cittadini, non solo per sporadici percorsi.  Anche il verde non manca: il verde privato dei giardini del Milanino si integra e si fonde con il verde pubblico dei viali alberati e con  quello dei parchi urbani, dal parco Matteotti fino al nuovo parco di via Ippocastani.  Certo vanno meglio organizzati i trasporti pubblici  e i collegamenti con la grande città: la ferrovia, i collegamenti con le metropolitane , la metrotranvia che sembra prossima a decollare e chissà in futuro anche una fermata di metro’. Vanno completate le piste ciclabili, affinché possano diventare una valida alternativa all’uso dell’auto, immaginando percorsi che si collegano con quelli di altri comuni fino a raggiungere nodi strategici,  noleggio di biciclette con pedalata assistita e  ed altro ancora

Le idee non mancano: molte sono racchiuse in quel corposo programma elettorale che il centrosinistra aveva formulato circa un anno fa, sembra passato un secolo! Qualcosa di buono c’era: come l’idea di riorganizzare la mobilità partendo dai percorsi pedonali, per tentare di abolire le barriere architettoniche che ancora li ostacolano, come quella di sperimentare con forza ed insistenza la pedonalizzazione temporanea e localizzata del viale Matteotti , utilizzando lo strumento della sperimentazione temporanea.

Questi approcci erano stati duramente contestati dai cittadini, ma si può sempre cambiare idea. E  se ora dovessero rivelarsi una chance per i commercianti duramente provati dal blocco forzato delle loro attività? E se ora diventassero una possibilità per loro di invadere il marciapiede concedendosi più spazio, senza costi aggiuntivi, consentendo a sua volta ai pedoni di invadere la sede stradale?

Per farlo non ci vogliono grandi investimenti, ma strisce colorate sulla pavimentazione, ne era previsto il rifacimento, e fioriere come quelle utilizzate a Milano per trasformare strade e marciapiedi in piccole piazzette colorate o magari si potrebbe utilizzare una semplice moquette di feltro, di quelle che si usano nelle festività e  che sono servite in passato a trasformare la piazza Allende in uno spazio giochi o il Cantiere di Palazzo Omodei in un elegante percorso museale.

E se ci riuscisse il virus a farci ripensare all’uso degli spazi pubblici?

La città del post-emergenza. Riflessioni sparse.

di Jacopo Carbonieri

Siamo finalmente entrati nella Fase 2, il momento in cui avevamo in molti sperato di vedere i lacci allentati. Le misure, invece, sono ancora stringenti, alcune anche discutibili: il termine “congiunti” che include i nipoti dei trisavoli – davvero! – ma non gli amici, emblema di una società ancora fortemente impostata sui legami familiari e non concepisce che individui lontano dai propri “congiunti”, per motivi lavorativi o per scelta personale, si siano costruiti i loro affetti stabili fuori da questi confini; la non differenziazione tra regioni, con la conseguenza che ognuna spinge per andare di testa propria; l’autocertificazione anche all’interno del proprio comune; i negozi al dettaglio chiusi mentre le altre attività produttive ripartono e la grande distribuzione non ha mai smesso di funzionare. Molto si è detto sul fatto che bisognerà convivere con il virus – sono stati diffusi anche scenari catastrofici in caso di seconda ondata – ,sulla mancanza di informazioni per quanto riguarda tamponi e test sierologici. Molto meno si è detto sulle nostre città, come cambieranno nel futuro e se questi cambiamenti saranno permanenti o meno.

La ciclabile progettata per Corso Buenos Aires.

L’idea di città dell’immediato post coronavirus è oggetto di profonde riflessioni ovunque. Il paradosso più evidente è che la città dei pedoni e delle biciclette, presentata finora come la rivincita dello spazio pubblico nel suo ruolo di aggregatore sociale, oggi diventa la stessa città che riesce a garantire il distanziamento sociale – nuovo dogma per chissà quanto tempo -: questa è solo l’ennesima riprova della versatilità di un modello tanto avversato da molti cultori nostrani delle auto, ma che dimostra le sue enormi potenzialità. Vilnius, anche a scopo turistico sia chiaro, ha deciso di trasformare la città in un bar a cielo aperto concedendo lo spazio pubblico gratuitamente ai locali in modo da garantire la distanza richiesta di due metri, Milano restringe le carreggiate e disegna piste ciclabili su assi stradali finora considerati intoccabili. Da ogni parte piovono idee di zone 30, pedonalizzazioni, play streets e chi più ne ha più ne metta: finalmente. Già nella metà degli anni ’50 Ludwig Mies van der Rohe e Ludwig Hilberseimer progettavano a Lafayette Park, Detroit, un percorso casa-scuola che non prevedesse mai un attraversamento pedonale. Magari ci arriveremo anche noi a qualcosa di simile.

Vilnius (dal Corriere della Sera)

Il post-emergenza non può però essere solo questo. L’esigenza del distanziamento sociale implica anche una redistribuzione temporale dell’uso dello spazio pubblico. Se da un lato sicuramente la quantità di spazio pubblico deve aumentare, è altrettanto vero che una densità d’uso molto ridotta esigerà lo scaglionamento l’utilizzo, che dovrà essere spalmato su un tempo più lungo. Anche in questo caso, alcune proposte non certo originali in campo di politiche urbane, come l’utilizzo degli spazi (aperti e chiusi) scolastici fuori dall’orario tradizionale, vanno esattamente nella direzione di ampliare la quantità di spazio disponibile utilizzandolo per un tempo maggiore.

Una piccolo esempio dall’esterno oriente: Hanoi non è una città che brilla per quantità e uso dello spazio pubblico – sicuramente un uso affascinante ma non ne farei a cambio -. Di fronte all’hotel in cui ho soggiornato si trovava una scuola con un grande spiazzo, chiusa dentro alte mura e invisibile dalla strada, ma non dal tredicesimo piano dell’hotel, un edificio alto e stretto come quelli che caratterizzano la città. Ecco, tutte le mattine, prima delle 7, prima che le lezioni iniziassero, un esercito di bambini si riuniva – al diavolo il distanziamento sociale in quel caso – e giocava prima dell’inizio delle lezioni in uno dei rarissimi spazi aperti della città. Alle 6.30 di mattina.

È chiaro che si tratta di un esempio e il vero problema della desincronizzazione sono gli orari lavorativi, il che apre una parentesi sul tema dello smart working e, di riflesso, della casa. Per sintetizzare, la casa non è per tutti adatta alle proprie esigenze e il lavoro da casa può essere vissuto come un ulteriore disagio. Questo per dire che, quando si parla di accesso alla casa, si ricominci, per pietà, a discutere sia di quantità che di qualità – Antonio Tosi docet -. Per non parlare di chi la casa non ce l’ha, situazioni che spesso sono il risultato di una somma di problematiche che rendono la marginalità una condizione di non ritorno, purtroppo difficili anche solo da approcciare.

Il lavoro dunque, che con i suoi ritmi scandisce le giornate, crea una routine e impatta sulle città con gli esodi quotidiani di tragitto casa-lavoro nelle cosiddette ore di punta. I mezzi pubblici, che da modello di trasporto urbano, sono diventati – o diventeranno – un contenitore di paure dettate da un nemico invisibile, non potranno più assolvere a tutto tondo alla funzione di trasporto casa-lavoro; un trasferimento massiccio all’uso delle auto è evidentemente fisicamente impossibile, è apprezzabile la scelta di incentivare l’uso della bicicletta, perché di scelta si tratta e si sarebbe anche potuti intervenire diversamente – certo, su questo sarebbe auspicabile che la bontà della scelta si espanda anche fuori di confini milanesi…-, ma è quanto più evidente che non può essere una soluzione adatta a tutte le esigenze.

Il tema che si pone è modificare ritmi e tragitti urbani quotidiani. Lo smart working è chiaramente una prima soluzione, ma, appunto, non è una soluzione universale. Ecco che allora emerge una nuova potenzialità dei coworking, spazi di lavoro collettivo – da riorganizzare ovviamente secondo le regole del distanziamento sociale – che, oltre a garantire la contaminazione delle idee e uno spazio di lavoro economico a giovani professionisti, possono servire da collettore per chi non ha uno spazio adatto nella propria casa e, allo stesso tempo, non si reca al proprio posto di lavoro per tutti i motivi che abbiamo detto; dislocare simili servizi omogeneamente sul territorio, come servizi di prossimità, potrebbe, anche fuori dall’emergenza, modificare ritmi, orari e tragitti ormai considerati inevitabili.

L’ultimo tema di queste riflessioni, è proprio il tema della prossimità dei servizi. Il divieto di uscire dal proprio comune o di allontanarsi oltre un tot dalla propria abitazione se non per comprovate esigenze ha dimostrato l’importanza di avere vicino i servizi, intesi sia come servizi pubblici come scuole e presidi sanitari, sia come negozi di vicinato per le esigenze quotidiane. Questi ultimi sono stati tra i più colpiti dalla crisi, e la riapertura rimandata è effettivamente un macigno non indifferente sulle speranze di ripresa. In qualche modo si sono reinventati con le consegne a domicilio e, nell’ottica di limitare gli spostamenti e risintonizzare ritmi e orari della giornata, questo può essere uno spunto per superare una crisi che già attanagliava il commercio al dettaglio: che ci piaccia o no, il successo delle vendite online dimostra che l’acquisto ai nostri giorni non presume più la visione preventiva del prodotto, allo stesso tempo però sta ancora a cuore il rapporto tra venditore e cliente tipico del commercio al dettaglio. Questo rapporto, che sarà messo in crisi dalle paure del contatto nel bene o nel male interiorizzate, può essere mantenuto a distanza tramite applicazioni di vendite online che riuniscano i commercianti di un comune, una strada, una piazza, creando cataloghi dei negozianti di fiducia, che facciano concorrenza ai colossi del web. Dal tema delle vendite online e delle spedizioni in generale si potrebbero sviluppare ragionamenti sulle modalità, sui mezzi, sugli orari e sui percorsi migliori – orari o corsie dedicati, cargobike, punti di raccolta, ecc. -, insomma i temi non finiscono certo qui e da ognuno ne scaturiscono altri a volontà. Una nuova tranche di riflessioni potrà nascere una volta che saremo nel cuore della Fase 2.

Rigenerazione urbana e progettualità. Il ruolo di Cusano Milanino nella Città Metropolitana.

Sabato 23 Novembre in Sala Moneta hanno avuto inizio le giornate di informazione e riflessione del Partito Democratico cusanese. Uno dei due temi di indagine e approfondimento è stato la governance dei processi di rigenerazione urbana e il rapporto tra i comuni della neonata Città Metropolitana di Milano e l’ente stesso; a tenere la conferenza sono stati Mario Paris, Dottore di Ricerca in Pianificazione Urbana e Regionale e docente al Politecnico di Milano, e Lidia Arduino, ex-assessore, architetto e candidata sindaco per la coalizione di centrosinistra alle scorse elezioni amministrative.

È interessante provare a raccontare, con l’ambizione di riuscirle a sintetizzare efficacemente, l’enorme quantità di informazioni e spunti emersi, relativi alla presentazione allegata e a lungo dibattuti. Una prima valutazione interessante è che, a dispetto della sua autoesaltazione (“Città Alfa secondo il Global City Network!”), Milano è piccola, e senza la sua area metropolitana sparirebbe dai radar dei tanto decantati investitori stranieri; dall’altro lato, i temi che una volta erano prettamente urbani e non coinvolgevano l’allora “periferia”, oggi sono diffusi su un territorio ben più ampio dei confini della città e il termine “periferia” ha assunto significati ben più complessi e meno legati al suo significato geografico. Ma questo è un tema che meriterebbe una lunga trattazione a parte, che prima o poi potrebbe anche arrivare.

Paris_rigenerazione-urbana_novembre-2019

A partire da queste piccole (in termini di numero di parole, ma enormi in termini di conseguenze) affermazioni, è interessante esplorare brevemente, a pochi anni dalla Legge Delrio – legge quanto meno discutibile, per usare un eufemismo – il rapporto e i contributi reciproci tra l’ente Città Metropolitana (ex provincia) e i singoli Comuni che ne fanno parte. Ciò di cui tutti, come cittadini più o meno attenti, siamo a conoscenza è la difficoltà per i Comuni di piccole-medie dimensioni come il nostro ad uscire dalla dimensione dell’ordinario (tappare le buche, asfaltare la strada, riparare l’altalena, sostituire il cestino, ecc) per irrompere nello straordinario, inteso come progettualità e visione a medio-lungo termine. In collaborazione con il Politecnico di Milano, la Città Metropolitana ha fatto un tentativo di raccolta dei progetti nei cassetti degli Uffici Tecnici dei 133 Comuni (Milano esclusa ovviamente) e non solo i risultati sono stati francamente deprimenti, ma in un primo momento non sono state ricevute nemmeno risposte alla semplice richiesta! Dal punto di vista amministrativo, è stato interessante venire a conoscenza che diverse delle risposte ricevute sono arrivate a seguito della mobilitazione e interesse di illuminati amministratori locali.

Questa raccolta di dati è finalizzata alla messa in rete dei progetti di diversi comuni allo scopo di confezionare strategie progettuali ad un livello di definizione tale che possano ambire ad accedere a bandi, che spesso vengono pubblicati senza preavviso (in Italia, a livello europeo i bandi sono invece a cadenza fissa e calendarizzati con ampio anticipo…) e offrono tempi molto contingentati per la presentazione dei progetti alla ricerca di finanziamenti. I Comuni infatti sono giustamente sempre alla ricerca di fondi per la suddetta manutenzione ordinaria e i bandi sono l’unica occasione da cogliere al volo per finanziare l’extraordinario, con un risvolto però: portare un progetto ad un livello di definizione che permetta di accedere ai finanziamenti di un bando assorbe risorse, siano esse temporali, economiche o umane, in molti casi non disponibili, per lo meno contemporaneamente, all’interno delle strutture tecniche comunali. E quando accade che, pur avendo dedicato tempo e passione, il progetto viene respinto, la delusione va ad inficiare il morale di dipendenti comunali già oberati dalle richieste di tappare le buche e svuotare i cestini.

Una conclusione è quindi che Città Metropolitana può venire in aiuto con questo scopo, ovvero mettere in rete progetti, strutture tecniche, fornire consulenza nella stesura dei progetti ed evitare che i Comuni competano tra loro quando non necessario. Il tutto con l’obiettivo finale di far convivere quotidianità e progettualità all’interno delle amministrazioni locali e sganciare la seconda dall’eccezionalità rappresentata dai vari bandi e farla entrare sempre più come necessità, perchè la visione di una città, che è la politica a dover offrire, vada oltre non solo oltre il mese o i 5 anni dell’amministrazione, ma anche a lungo termine. La strada è lunga, ma queste occasioni servono proprio a stimolare la riflessione, alzare le antenne per cogliere le opportunità e offrire ai cittadini, ai quali a un certo punto ci si trova a dover chiedere fiducia tramite il voto, una prospettiva di sviluppo, che mantenga le specificità locali inserite in un contesto di una città internazionale sovraccarica di offerte e spesso percepita come buco nero che attrae e non restituisce, più che come attrattore di investimenti da redistribuire.

Jacopo Carbonieri