PALAZZO OMODEI: LE RISPOSTE ARRIVERANNO DALLA PROCURA DELLA REPUBBLICA DI MONZA

La scorsa settimana a seguito di un nostro post sulla riapertura dei cantieri per i lavori di Palazzo Omodei si è aperta una lunga polemica sul gruppo fb “Sei di Cusano Milanino se” portata avanti dal M5S di Cusano Milanino sulla vicenda delle false fidejussioni del 2014.

Le risposte che chiede il M5S non le deve dare né il Partito Democratico né tantomeno l’ex Giunta Gaiani, ma la Procura della Repubblica di Monza. L’ex sindaco Gaiani nel marzo 2016 ha presentato un esposto proprio per denunciare alla Magistratura la vicenda. Attendiamo l’esito delle indagini, quando saranno terminate sapremo come sono andati i fatti e di chi sono state le responsabilità.

Teniamo solo a evidenziare due elementi:

1. Dal comunicato del M5S passa totalmente in secondo piano il ruolo dell’operatore economico, colui che nel 2014 emise delle fidejussioni non coperte danneggiando sia la giunta che i cittadini di Cusano Milanino. Allo stesso tempo si cerca di imputare alla ex Giunta chissà quali responsabilità, segreti o misteri che in realtà non esistono. Il Comune di Cusano Milanino è parte lesa nella controversia, questo lo affermiamo senza esitazioni per dare ai cittadini una corretta informazione.

2. Per quanto riguarda la firma sulla fidejussione, è davvero fuori luogo il sensazionalismo con cui si vuole far passare per notizia clamorosa una non notizia. Nessuno ha mai detto che la firma non fosse dell’allora dirigente preposto, che aveva autonomia decisionale per quanto riguarda il potere di firma su un atto di quel tipo. La leggenda della firma non identificabile o dubbia non è mai stata diffusa né tantomeno orchestrata da nessun esponente della passata amministrazione né dai partiti che sostenevano quella maggioranza.

Sarebbe poi davvero curioso il caso di una Giunta che voglia in qualche modo mascherare un illecito presentando essa stessa un esposto in Procura per denunciare e ricostruire i fatti. Le domande inquisitorie del M5S sono quindi semplicemente illazioni.

Aspetteremo l’esito delle indagini della Procura, senza avere nessun tipo di scheletro nell’armadio e respingendo al mittente le, non troppo velate, insinuazioni.

Non vogliamo entrare in quella che ci sembra una polemica strumentale, con un retrogusto di fanatico complottismo.

Coordinamento Partito Democratico Cusano Milanino

E se ci riuscisse un virus? Uscire dall’emergenza immaginando il futuro

di Lidia Arduino

“Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema”

Sono proprio una irriducibile ottimista se riesco ad immaginare che questa pandemia mondiale possa portare alcunché di buono!

Ma spesso è proprio dalle esperienze dolorose che nasce qualcosa che segna profondamente e modifica il proprio modo di pensare e di vivere. Lo è stato nella mia esperienza personale e potrebbe esserlo per questo disastro collettivo o almeno per il futuro di questa città.

Stiamo uscendo dall’emergenza e molti osservano che può essere l’occasione buona per rivedere quella “normalità” alla quale vorremmo ritornare, ma dentro la quale c’erano probabilmente anche le concause di questa pandemia. Penso all’inquinamento e alle polveri sottili che rendono più vulnerabile l’organismo umano e forse costituiscono dei vettori per la diffusione del virus. E il discorso si potrebbe estendere ad altri ambiti: economico, sociale, sanitario , politico e così via.

Ebbene il rallentamento della vita sociale e lavorativa e quello stare in casa come prescrizione medica alla diffusione dell’epidemia mi hanno permesso di compiere riflessioni e approfondimenti sulla vita nelle grandi concentrazioni urbane, le preferite per la diffusione del virus.

Si sono in questo periodo sviluppati molti dibattiti sui tempi e sugli spazi della vita nelle grandi città, come quello condotto da Stefano Boeri, che ho avuto il piacere di seguire in un quotidiano dialogo aperto sui social, il quale ha invitato a pensare ad una città diversa, più verde, una città dei quartieri, divisa in piccoli “borghi urbani” che permettono agli abitanti di raggiungere tutti i servizi essenziali in 15 minuti a piedi. Questo modello è ben diverso da quello delle periferie urbane americane a bassa densità, fatta di infinite villette che non fanno che consumare suolo e rendere indispensabile l’uso della macchina per raggiungere i centri commerciali. Nel piccolo borgo possono essere rivalutati anche i negozi di vicinato e diventano vitali gli spazi aperti, come le piazze e i giardini che, anche in momenti di distanziamento sociale, consentono di vivere all’aperto.

Ho pensato che, in fondo, la nostra città di Cusano Milanino  possiede già questi requisiti: si potrebbe infatti definire un piccolo borgo di circa 3 chilometri quadrati, percorribili a piedi, con un centro commerciale alberato fatto di negozi di prossimità, distribuiti su un unico asse e con diverse ramificazioni (Viale Matteotti) che incrocia ortogonalmente un altro importante asse  commerciale che ha ora un aspetto disordinato e in cerca di identità (Via Sormani).  I servizi essenziali: civici, religiosi, sanitari sono a portata di mano, così anche i luoghi della cultura, dalla Torre dell’Acquedotto, alla Biblioteca, fino al Palazzo Omodei , una volta che sarà restituito completamente ai cittadini, non solo per sporadici percorsi.  Anche il verde non manca: il verde privato dei giardini del Milanino si integra e si fonde con il verde pubblico dei viali alberati e con  quello dei parchi urbani, dal parco Matteotti fino al nuovo parco di via Ippocastani.  Certo vanno meglio organizzati i trasporti pubblici  e i collegamenti con la grande città: la ferrovia, i collegamenti con le metropolitane , la metrotranvia che sembra prossima a decollare e chissà in futuro anche una fermata di metro’. Vanno completate le piste ciclabili, affinché possano diventare una valida alternativa all’uso dell’auto, immaginando percorsi che si collegano con quelli di altri comuni fino a raggiungere nodi strategici,  noleggio di biciclette con pedalata assistita e  ed altro ancora

Le idee non mancano: molte sono racchiuse in quel corposo programma elettorale che il centrosinistra aveva formulato circa un anno fa, sembra passato un secolo! Qualcosa di buono c’era: come l’idea di riorganizzare la mobilità partendo dai percorsi pedonali, per tentare di abolire le barriere architettoniche che ancora li ostacolano, come quella di sperimentare con forza ed insistenza la pedonalizzazione temporanea e localizzata del viale Matteotti , utilizzando lo strumento della sperimentazione temporanea.

Questi approcci erano stati duramente contestati dai cittadini, ma si può sempre cambiare idea. E  se ora dovessero rivelarsi una chance per i commercianti duramente provati dal blocco forzato delle loro attività? E se ora diventassero una possibilità per loro di invadere il marciapiede concedendosi più spazio, senza costi aggiuntivi, consentendo a sua volta ai pedoni di invadere la sede stradale?

Per farlo non ci vogliono grandi investimenti, ma strisce colorate sulla pavimentazione, ne era previsto il rifacimento, e fioriere come quelle utilizzate a Milano per trasformare strade e marciapiedi in piccole piazzette colorate o magari si potrebbe utilizzare una semplice moquette di feltro, di quelle che si usano nelle festività e  che sono servite in passato a trasformare la piazza Allende in uno spazio giochi o il Cantiere di Palazzo Omodei in un elegante percorso museale.

E se ci riuscisse il virus a farci ripensare all’uso degli spazi pubblici?

La città del post-emergenza. Riflessioni sparse.

di Jacopo Carbonieri

Siamo finalmente entrati nella Fase 2, il momento in cui avevamo in molti sperato di vedere i lacci allentati. Le misure, invece, sono ancora stringenti, alcune anche discutibili: il termine “congiunti” che include i nipoti dei trisavoli – davvero! – ma non gli amici, emblema di una società ancora fortemente impostata sui legami familiari e non concepisce che individui lontano dai propri “congiunti”, per motivi lavorativi o per scelta personale, si siano costruiti i loro affetti stabili fuori da questi confini; la non differenziazione tra regioni, con la conseguenza che ognuna spinge per andare di testa propria; l’autocertificazione anche all’interno del proprio comune; i negozi al dettaglio chiusi mentre le altre attività produttive ripartono e la grande distribuzione non ha mai smesso di funzionare. Molto si è detto sul fatto che bisognerà convivere con il virus – sono stati diffusi anche scenari catastrofici in caso di seconda ondata – ,sulla mancanza di informazioni per quanto riguarda tamponi e test sierologici. Molto meno si è detto sulle nostre città, come cambieranno nel futuro e se questi cambiamenti saranno permanenti o meno.

La ciclabile progettata per Corso Buenos Aires.

L’idea di città dell’immediato post coronavirus è oggetto di profonde riflessioni ovunque. Il paradosso più evidente è che la città dei pedoni e delle biciclette, presentata finora come la rivincita dello spazio pubblico nel suo ruolo di aggregatore sociale, oggi diventa la stessa città che riesce a garantire il distanziamento sociale – nuovo dogma per chissà quanto tempo -: questa è solo l’ennesima riprova della versatilità di un modello tanto avversato da molti cultori nostrani delle auto, ma che dimostra le sue enormi potenzialità. Vilnius, anche a scopo turistico sia chiaro, ha deciso di trasformare la città in un bar a cielo aperto concedendo lo spazio pubblico gratuitamente ai locali in modo da garantire la distanza richiesta di due metri, Milano restringe le carreggiate e disegna piste ciclabili su assi stradali finora considerati intoccabili. Da ogni parte piovono idee di zone 30, pedonalizzazioni, play streets e chi più ne ha più ne metta: finalmente. Già nella metà degli anni ’50 Ludwig Mies van der Rohe e Ludwig Hilberseimer progettavano a Lafayette Park, Detroit, un percorso casa-scuola che non prevedesse mai un attraversamento pedonale. Magari ci arriveremo anche noi a qualcosa di simile.

Vilnius (dal Corriere della Sera)

Il post-emergenza non può però essere solo questo. L’esigenza del distanziamento sociale implica anche una redistribuzione temporale dell’uso dello spazio pubblico. Se da un lato sicuramente la quantità di spazio pubblico deve aumentare, è altrettanto vero che una densità d’uso molto ridotta esigerà lo scaglionamento l’utilizzo, che dovrà essere spalmato su un tempo più lungo. Anche in questo caso, alcune proposte non certo originali in campo di politiche urbane, come l’utilizzo degli spazi (aperti e chiusi) scolastici fuori dall’orario tradizionale, vanno esattamente nella direzione di ampliare la quantità di spazio disponibile utilizzandolo per un tempo maggiore.

Una piccolo esempio dall’esterno oriente: Hanoi non è una città che brilla per quantità e uso dello spazio pubblico – sicuramente un uso affascinante ma non ne farei a cambio -. Di fronte all’hotel in cui ho soggiornato si trovava una scuola con un grande spiazzo, chiusa dentro alte mura e invisibile dalla strada, ma non dal tredicesimo piano dell’hotel, un edificio alto e stretto come quelli che caratterizzano la città. Ecco, tutte le mattine, prima delle 7, prima che le lezioni iniziassero, un esercito di bambini si riuniva – al diavolo il distanziamento sociale in quel caso – e giocava prima dell’inizio delle lezioni in uno dei rarissimi spazi aperti della città. Alle 6.30 di mattina.

È chiaro che si tratta di un esempio e il vero problema della desincronizzazione sono gli orari lavorativi, il che apre una parentesi sul tema dello smart working e, di riflesso, della casa. Per sintetizzare, la casa non è per tutti adatta alle proprie esigenze e il lavoro da casa può essere vissuto come un ulteriore disagio. Questo per dire che, quando si parla di accesso alla casa, si ricominci, per pietà, a discutere sia di quantità che di qualità – Antonio Tosi docet -. Per non parlare di chi la casa non ce l’ha, situazioni che spesso sono il risultato di una somma di problematiche che rendono la marginalità una condizione di non ritorno, purtroppo difficili anche solo da approcciare.

Il lavoro dunque, che con i suoi ritmi scandisce le giornate, crea una routine e impatta sulle città con gli esodi quotidiani di tragitto casa-lavoro nelle cosiddette ore di punta. I mezzi pubblici, che da modello di trasporto urbano, sono diventati – o diventeranno – un contenitore di paure dettate da un nemico invisibile, non potranno più assolvere a tutto tondo alla funzione di trasporto casa-lavoro; un trasferimento massiccio all’uso delle auto è evidentemente fisicamente impossibile, è apprezzabile la scelta di incentivare l’uso della bicicletta, perché di scelta si tratta e si sarebbe anche potuti intervenire diversamente – certo, su questo sarebbe auspicabile che la bontà della scelta si espanda anche fuori di confini milanesi…-, ma è quanto più evidente che non può essere una soluzione adatta a tutte le esigenze.

Il tema che si pone è modificare ritmi e tragitti urbani quotidiani. Lo smart working è chiaramente una prima soluzione, ma, appunto, non è una soluzione universale. Ecco che allora emerge una nuova potenzialità dei coworking, spazi di lavoro collettivo – da riorganizzare ovviamente secondo le regole del distanziamento sociale – che, oltre a garantire la contaminazione delle idee e uno spazio di lavoro economico a giovani professionisti, possono servire da collettore per chi non ha uno spazio adatto nella propria casa e, allo stesso tempo, non si reca al proprio posto di lavoro per tutti i motivi che abbiamo detto; dislocare simili servizi omogeneamente sul territorio, come servizi di prossimità, potrebbe, anche fuori dall’emergenza, modificare ritmi, orari e tragitti ormai considerati inevitabili.

L’ultimo tema di queste riflessioni, è proprio il tema della prossimità dei servizi. Il divieto di uscire dal proprio comune o di allontanarsi oltre un tot dalla propria abitazione se non per comprovate esigenze ha dimostrato l’importanza di avere vicino i servizi, intesi sia come servizi pubblici come scuole e presidi sanitari, sia come negozi di vicinato per le esigenze quotidiane. Questi ultimi sono stati tra i più colpiti dalla crisi, e la riapertura rimandata è effettivamente un macigno non indifferente sulle speranze di ripresa. In qualche modo si sono reinventati con le consegne a domicilio e, nell’ottica di limitare gli spostamenti e risintonizzare ritmi e orari della giornata, questo può essere uno spunto per superare una crisi che già attanagliava il commercio al dettaglio: che ci piaccia o no, il successo delle vendite online dimostra che l’acquisto ai nostri giorni non presume più la visione preventiva del prodotto, allo stesso tempo però sta ancora a cuore il rapporto tra venditore e cliente tipico del commercio al dettaglio. Questo rapporto, che sarà messo in crisi dalle paure del contatto nel bene o nel male interiorizzate, può essere mantenuto a distanza tramite applicazioni di vendite online che riuniscano i commercianti di un comune, una strada, una piazza, creando cataloghi dei negozianti di fiducia, che facciano concorrenza ai colossi del web. Dal tema delle vendite online e delle spedizioni in generale si potrebbero sviluppare ragionamenti sulle modalità, sui mezzi, sugli orari e sui percorsi migliori – orari o corsie dedicati, cargobike, punti di raccolta, ecc. -, insomma i temi non finiscono certo qui e da ognuno ne scaturiscono altri a volontà. Una nuova tranche di riflessioni potrà nascere una volta che saremo nel cuore della Fase 2.